Con la sentenza n. 38444 depositata ieri, 27 ottobre, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi proposti da due dipendenti di uno studio commerciale, confermando dunque la sentenza della Corte di Appello che li aveva dichiarati colpevoli, in concorso con altri soggetti, del reato di cui all’articolo 2 D.Lgs. 74/2000 (“Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”).
Stante quanto emerso dalle dichiarazioni raccolte in giudizio, la dipendente di uno studio commerciale comunicava ai clienti dello stesso gli importi da fatturare; questi ultimi, dopo aver effettuato autonome valutazioni sull’opportunità di servirsi di fatture di comodo, prendevano contatto con il titolare dello studio commerciale.
La dipendente veniva però condannata per il reato di cui all’articolo 2 D.Lgs. 74/2000, in concorso con altri soggetti, tra i quali un altro dipendente dello stesso studio, il quale si difendeva evidenziando come non risultasse né l’ideatore né l’organizzatore della frode.
La dipendente, come anche il collega, promuovevano pertanto ricorso per Cassazione sottolineando come la loro attività fosse limitata all’esecuzione di ordini; attività alla quale non potevano peraltro sottrarsi, considerata la mancanza di una specifica competenza tecnica.
La Corte di Cassazione, investita della questione, rilevava tuttavia che, come confermato dalle persone escusse, i due dipendenti non si limitavano a compilare le dichiarazioni fiscali utilizzando i documenti (fittizi) che venivano loro consegnati dai contribuenti, ma partecipavano attivamente al sistema organizzato dal coimputato professionista, consistente nell’abbassare i redditi da dichiarare mediante l’utilizzo di fatture passive per operazioni inesistenti, le quali venivano infatti emesse per gli importi calcolati ed indicati dai due dipendenti, al fine di ottenere il già calcolato risparmio d’imposta.
I prospetti con le false fatture da indicare in dichiarazione per la riduzione del carico fiscale venivano inviati dai dipendenti con la dizione “fatture da ricevere” o “fatturazione necessaria per il rientro” almeno due mesi dopo il periodo di riferimento della fattura stessa: i Giudici, quindi, hanno ritenuto evidente la consapevolezza dei due imputati in merito al mancato sostenimento dei costi da parte dei contribuenti, trattandosi palesemente di fatture emesse in data successiva al sol fine di poter indicare maggiori costi nella dichiarazione dei redditi, seppure inesistenti.
Irrilevante è stata invece ritenuta la circostanza che il meccanismo fraudolento fosse stato creato quattro anni prima rispetto all’ingresso nello studio commerciale del dipendente e che quest’ultimo non si occupasse di reperire le false fatture.