Argomento di particolare interesse riguarda, anche in ambito tributario, la legittimazione ad agire o a contraddire in giudizio (la c.d. legittimazione attiva o passiva dei soggetti).
Preliminarmente si osserva che nel processo tributario la legittimazione a impugnare gli atti impositivi appartiene soltanto al destinatario dell’atto impugnato o a chi è parte del rapporto controverso e rientra dunque tra i soggetti passivi dell’imposizione tributaria, che sono gli unici a potere proporre ricorso, ai sensi dell’articolo 14, comma 3, D.Lgs. 546/1992.
In particolare, la responsabilità degli autori materiali della violazione, anche ove abbiano commesso il fatto in concorso tra loro, e quella delle persone giuridiche chiamate a risponderne, anche come coobbligate solidali, dà luogo a una pluralità di rapporti autonomi; sicché è configurabile un litisconsorzio facoltativo tra i predetti soggetti, e ciascuno di essi è legittimato a spiegare l’intervento adesivo autonomo nel giudizio promosso dagli altri.
Precisato ciò, si osserva che la “legitimatio ad causam” si ricollega al principio dettato dall’articolo 81 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge di sostituzione processuale o di rappresentanza.
Trattandosi di materia attinente alla legittima instaurazione del contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza “inutiliter data”, la verifica (in ogni stato e grado del giudizio) della titolarità, in capo all’attore e al convenuto, dei relativi diritti e obblighi, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, può avvenire anche d’ufficio, salvo che sulla questione sia intervenuto giudicato interno.
A tale proposito, secondo giurisprudenza costante: “il difetto di legittimazione attiva o passiva, da valutarsi in base allo schema normativo astratto al quale si riconduce il diritto fatto valere in giudizio, è questione che, pur risultando decisiva per l’esistenza della titolarità di tale diritto, è rilevabile anche in sede di legittimità alla duplice condizione che non si sia formata sulla sua esistenza cosa giudicata interna (per essere stato il punto ad essa relativo oggetto di discussione e poi di decisione rimasta priva di impugnazione) e che la questione emerga sulla base dei fatti legittimamente prospettati davanti alla Corte di Cassazione e, dunque, nel rispetto dei limiti entro i quali deve svolgersi l’attività deduttiva delle parti negli atti introduttivi del giudizio di cassazione” (Cass. Civ. n. 23568/2011).
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20978/2013, ha affrontato in maniera esaustiva la questione e ha precisato che: “in tema di contenzioso tributario […] il giudicato implicito sulla questione pregiudiziale della legittimazione ad agire non può formarsi qualora la questione non sia stata sollevata dalle parti ed il giudice (con implicita statuizione positiva sulla stessa) si sia limitato a decidere nel merito, restando in tal caso la formazione del giudicato sulla pregiudiziale impedita dall’impugnativa del capo della sentenza relativamente al merito. Ne consegue che il giudice del gravame può rilevare d’ufficio il difetto di uno dei presupposti della legittimazione ad agire e, ove il rilievo venga effettuato in sede di legittimità, la sentenza va cassata senza rinvio, esclusa ogni pronuncia nel merito trattandosi di impugnazione inammissibile”.
La Cassazione, a Sezioni Unite, è tornata recentemente a occuparsi dell’argomento e con la sentenza n. 7925/2019 ha così affermato: “la decisione della causa nel merito non comporta la formazione del giudicato implicito sulla legittimazione ad agire ove tale “quaestio iuris”, pur avendo costituito la premessa logica della statuizione di merito, non sia stata sollevata dalle parti, posto che una questione può ritenersi decisa dal giudice di merito soltanto ove abbia formato oggetto di discussione in contraddittorio”.
In altre parole il giudicato interno, comunque, preclude la rilevabilità d’ufficio delle relative questioni solo se espresso, cioè formatosi su rapporti tra “questioni di merito” dedotte in giudizio e, dunque, tra le plurime domande o eccezioni di merito, e non quando implicito, cioè formatosi sui rapporti tra “questioni di merito” e “questioni pregiudiziali” o “preliminari di rito o merito”, sulle quali il giudice non abbia pronunziato esplicitamente, sussistendo tra esse una mera presupposizione logico-giuridica.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 4945 del 24 febbraio 2021, si è conformata ai principi sopra esposti, dando ulteriore conferma all’indirizzo di legittimità precedentemente illustrato.