Affrontando il tema dell’evasione fiscale, giova ricordare che l’ordinamento giuridico non fornisce una definizione precisa di “frode fiscale”.
Tuttavia, la prassi amministrativa ha chiarito che con tale termine si fa generalmente riferimento a specifiche condotte di evasione attuate con modalità o comportamenti fraudolenti, ovvero ad illeciti di tipo “organizzato”.
In tale ambito, rientrano nel concetto di frode fiscale le fattispecie di reato sanzionate dagli articoli 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) e 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) D.Lgs. 74/2000.
In merito: possono integrare il reato, oltre alle fatture, anche gli altri documenti fiscalmente rilevanti (ricevute, note, conti, parcelle, contratti, documenti di trasporto, note di addebito e di accredito); la falsità dei citati documenti rileva sia sul piano oggettivo sia su quello soggettivo.
La fattura è oggettivamente falsa quando documenta operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte. Si ha una fattura soggettivamente falsa, invece, quando le operazioni documentate sono intercorse tra soggetti diversi da quelli risultanti formalmente quali parti del rapporto.
Ciò accade in modo più ricorrente nel caso delle frodi all’Iva, nell’ambito delle quali si inseriscono entità che operano soltanto su un piano “cartolare”, non rivestendo alcuna funzione economica (cfr. Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza volume I – parte I – capitolo 1 “Evasione e frode fiscale. Definizioni, classificazioni e principali linee d’azione della Guardia di Finanza”, pag. 10 e ss.).
Per arginare tale fenomeno fraudolento, che ha come preciso obiettivo quello di conseguire un indebito risparmio d’imposta, disapprovato dall’ordinamento giuridico, il legislatore ha previsto pesanti sanzioni e, segnatamente: la reclusione da quattro a otto anni nei confronti di chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi (articolo 2 D.Lgs. 74/2000).
Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono comunque detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
Infine, qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 100.000, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
la reclusione da tre a otto anni nei confronti di chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’Amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ovvero elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente:
1. l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro 300.000;
2. l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al 5 per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al 5 per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro 30.000.
In merito, il fatto delittuoso si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (articolo 3 D.Lgs. 74/2000).
Al fine di garantire, in ipotesi di frode fiscale, la garanzia di un recupero erariale delle imposte sottratte a tassazione, l’ordinamento giuridico contiene ulteriori disposizioni emanate, in particolare, in tema di confisca per equivalente. In merito, per espressa disposizione normativa, nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal D.Lgs. 74/2000, viene ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.
La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro.
In tema di confisca per equivalente, nella particolare ipotesi di frode carosello correlata all’acquisto di autovetture di provenienza estera, la Corte di cassazione, sezione 3^ penale, con la sentenza n. 33813 del 28.05.2021, ha delineato importanti principi di diritto con particolare riferimento alla nozione di “profitto del reato”.
Già in passato gli Ermellini, nella sentenza a Sezioni Unite n. 10561 del 30.01.2014 avevano affermato che “il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’articolo 321, comma 2, c.p.p., il […] sequestro preventivo, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.
Nella sentenza a Sezioni Unite n. 31617/2015 è stato chiarito che il profitto del reato deve essere “inteso come vantaggio economico ottenuto in via diretta ed immediata dalla commissione del reato, e quindi legato da un rapporto di pertinenzialità diretta con l’illecito penale”.
Inoltre, quando il prezzo o il profitto del reato è costituito da denaro, le somme depositate su conti correnti bancari di cui il soggetto abbia la disponibilità sono qualificabili come prezzo o profitto del reato ed assoggettabili a confisca diretta in considerazione della natura del bene, senza alcuna necessità della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato.
Quindi, qualora il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto fino alla concorrenza del valore del profitto medesimo e deve essere qualificata come confisca diretta e non per equivalente.
In definitiva, i giudici di piazza Cavour confermano che i beni acquistati con il denaro ricavato dall’attività illecita e l’utile derivante dall’investimento del denaro di provenienza criminosa costituiscono il profitto del reato e possono così essere aggrediti a mezzo di confisca diretta.